Il 28 maggio del 1943 sono momentaneamente assente dal campo di Metato (PI) per ragioni di servizio essendomi recato a requisire degli alloggi per i miei ufficiali a Viareggio. Appreso dell’ennesimo allarme, rientro velocemente con l’autovettura al campo, dove ho lasciato il Gruppo nelle mani del ten. Medun che trovo difatti al posto radio-ascolto già in contatto con i nostri caccia che stanno inseguendo grosse formazioni di quadrimotori nel cielo di Livorno. In direzione della città, un’alta colonna di fumo denota che il bombardamento è già stato eseguito e l’allarme è stato dato solo al giungere dei bombardieri sull’obiettivo. Sul campo è rimasto solo il mio Re.2001 e così come mi trovo, con la divisa grigio-azzurra, vi salgo a bordo e parto cabrando fortemente verso Livorno, nella speranza di trovare qualche altra formazione in arrivo.
Alle mie orecchie giungono intanto le voci dei miei piloti che stanno attaccando i bombardieri oramai in rotta di rientro: è un susseguirsi di voci note che affrettatamente comunicano le notizie a terra. Sopra la città di Livorno il cielo è costellato di nuvolette dell’antiaerea, mentre a nord dell’agglomerato urbano la raffineria brucia emettendo una immensa colonna di fumo nero.
Giunto a quota 6.000 metri a sud-ovest di Livorno, mentre mi predispongo a provare le armi di bordo, osservando sotto di me il mare scorgo basso, proveniente dalla città ed in rotta sud-ovest, un grosso velivolo chiaro. Vederlo e buttarmi in picchiata dai 6.000 metri è tutt’uno: non so a quale velocità vado, l’anemometro si comporta in modo strano, la sagoma chiara del velivolo si ingrandisce gradatamente sullo sfondo del mare che pure esso viene verso di me repentinamente con le sue onde increspate.
Ora vedo bene il velivolo: è un ricognitore bimotore e, ancora in veloce picchiata di avvicinamento, sparo verso di lui le mie prime raffiche con le quattro mitragliere di bordo. I traccianti lo raggiungono in pieno, per cui effettuo la prevista manovra di scampo. Subito dopo, guardando indietro, vedo infuriare i suoi traccianti verso di me; approfitto quindi della forte velocità acquistata per salire ancora un poco e portarmi davanti all’avversario. Lo attacco nuovamente in picchiata ed ancora le mie raffiche entrano nella sua fusoliera.
Già una delle mie mitraglie si è inceppata e non spara più: insisto con le rimanenti ma l’avversario continua imperterrito sulla sua rotta in continua leggera picchiata per sfuggirmi. Risalgo e lo attacco questa volta in coda mentre ci stiamo avvicinando alla Corsica. Altre due mitraglie cessano di sparare ed usandone una solamente insisto a distanza ravvicinata, poiché anche le sue armi hanno smesso di sparare ed ha iniziato ad emettere fumo; spero quindi di vederlo precipitare sulla superficie del mare. Ma non faccio in tempo, poiché sono a corto di carburante e devo rientrare alla base. Solo più tardi la Marina che, con le sue unità ha assistito al combattimento, comunicava che il mio avversario era precipitato in Corsica.
Tutti gli altri piloti, ormai rientrati, mi raccontano dei loro attacchi alla formazione, valutata in circa cento tra quadrimotori e bimotori dei tipi B-17, B-25 e P-38, che avevano raggiunto a 7.000 metri di quota subito dopo l’attacco a Livorno. I piloti erano rimasti sorpresi dalla straordinaria possibilità dei bombardieri statunitensi di incassare i nostri colpi essendo muniti di spesse corazze ai serbatoi ed ai posti di pilotaggio. Ciò nonostante tre velivoli erano stati visti abbandonare la formazione e picchiare accompagnati da lunghe scie di fumo.
La mia prima comunicazione a Roma sull’esito del combattimento era piuttosto cauta: dichiaravo infatti che quattro velivoli avversari erano stati “probabilmente abbattuti” ed altri dieci mitragliati. La conferma però non tardava ad arrivare ed il giorno successivo, con sommo orgoglio, potevamo issare su di un pennone del campo le prime quattro bandierine bianche con le sagome dei bombardieri abbattuti.
La stessa radio avversaria il giorno seguente aveva ammesso la perdita di quattro velivoli appartenenti ad una grossa formazione di cento bombardieri attaccata da dieci caccia italiani. Ma sul numero dei nostri aerei si erano sbagliati poiché eravamo solo sette e se si esclude il mio velivolo sopraggiunto in un secondo momento, l’attacco era stato compiuto soltanto da sei valorosi piloti italiani, sei contro cento!
Il ricordo della vita trascorsa su quei campi di guerra, dopo ben cinquant’anni, non si era attenuato e ripresentandomi sovente alla mente le passate vicissitudini, un desiderio mi rimaneva inappagato: quello di poter ritornare sui luoghi dove avevo trascorso parte della mia vita di guerra.
Le verdi colline, poste a breve distanza dal campo di Metato che mi ospitò nel 1943, mi rividero in una giornata estiva. Individuato in un primo tempo con difficoltà il sedime, poi si ravvivarono nel ricordo ad uno ad uno i dettagli.
Rimasi lì, ammutolito, con lo sguardo che passava dall’erboso terreno ai delimitanti alberi, alle tracce del rifugio da noi scavato ed all’attigua cascina ora restaurata. Riconobbi, sull’onda dei ricordi, pur senza trovare tracce, il punto di caduta di un nostro Re.2001; al posto dell’indimenticabile macchia nerastra era rinata la vegetazione erbosa, cosparsa di tenui fiori campestri.
Nel frastuono del traffico sulla vicina Statale, mi sembrò riudire il rombo rabbioso dei miei caccia intercettori nei loro numerosi decolli; sentii il lieve fruscio del vento tra gli alberi, come a quel tempo, e qualcosa si diffuse nell’aria… qualcosa dal sapore di struggente nostalgia.
Col.pil. Ottorino Triboldi